09 giugno 2009

FARFA

Farfa una volta era stata parecchio bella.
Aveva di quegli occhi verdi da “pubblicità del mascara”. Quelli grandi e con l’iride cristallina che pareva colorata con un pennarello.
Aveva sempre avuto una fissa pazzesca per le farfalle. C’è un sacco di gente che ce l’ha per i delfini, lei ce l’aveva per le farfalle.
Tutte le pagine dei suoi diari erano invasi da alette colorate e alla fine se l’era pure fatta tatuare una farfallina; sulla pancia: una farfallina rosa e blu.
Solo che poi il suo Belmoro l’aveva mollata e lei aveva cominciato a mangiare un sacco di After Eight, quei cioccolatini con la menta dentro, e aveva continuato a mangiarli finchè la farfallina sulla pancia era diventata una specie di falena grossa con le ali tirate.
Quindi da allora tutti l’avevano sempre chiamata Farfa. Si, insomma, perché “farfallina” non ci stava più per niente.
Farfa faceva la cassiera in un negozio di alimentari. Uno di quei negozietti piccoli con poca roba carissima che ancora resistono in qualche paesino di villeggiatura.
Di quei negozi dove sulla roba c’è ancora attaccato il prezzo con l’adesivo fosforescente, quel pezzetto di nastrino stampato che si mette con quella specie di assurda pistola, la prezzatrice.
Niente codici a barre, niente penna ottica, Farfa metteva i prezzi nel registratore di cassa uno ad uno ed era quasi impossibile che sbagliasse.
Perché era parecchio tempo che stava incastrata lì, stretta su quello sgabello dietro al registratore di cassa, che quando cercava di uscire doveva sempre fare le grandi manovre.
Si, perché in tutto quel tempo non è che Farfa avesse smesso di mangiare i suoi cioccolatini con la menta.
Anche se dalla storia del Belmoro erano passati degli anni.
E’ che alla fine la faccenda di poter smettere di mettersi in ghingheri tutte le mattine le era piaciuta, a Farfa. Quando tutti i suoi vestiti carini e alla moda avevano smesso di entrarle si era comprata due camicioni e aveva finalmente scoperto cosa voleva dire “star comodi”, e poi dopo i cioccolatini aveva scoperto che c’era un sacco di altra roba parecchio buona da mangiare. E quindi non era più tornata ad essere mingherlina come prima.
Farfa era come un grande girasole in mezzo ad un campo di papaveri.
Lei era alta, grande, luminosa e forte, rideva spessissimo e lo faceva con una risata profonda e calda come l’estate. Attorno a lei tutte le sue amiche sembravano dei papaverini gracili.
Tutti la guardavano quando era in giro. E lei guardava il sole.
Farfa leggeva moltissimo; nel cassetto sotto alla cassa teneva sempre un libro di quelli con la copertina morbida che si possono anche arrotolare e puoi infilarli dappertutto. Casa sua ne era piena. Leggeva di tutto. Avventura, poesia, letteratura classica. Tutto quello che aveva una copertina di cartoncino morbido e che la cartolibreria del paese riuscisse a procurarsi.
In tutti quegli anni doveva aver accumulato un tesoro di conoscenze da far invidia ai laureati. Però non è che lei se ne andasse in giro a vantarsene di conoscere un sacco di cose che magari gli altri non sapevano.
Ma ogni tanto la sua cultura emergeva. Come le cose che il mare restituisce dopo le tempeste, quando tutto torna calmo e il cielo è di nuovo sereno.
A volte, quando si parlava di qualcosa, Farfa si lasciava sfuggire una parola, o una spiegazione, o una descrizione che facevano capire subito che lei era una che aveva letto tanto.
Ma non credo lo facesse apposta. E’ che la cultura è un tesoro talmente brillante che non si può tenere nascosto del tutto il suo riflesso.
Non se n’era mai andata dal paese. Dopo la scuola aveva trovato da lavorare alla bottega e si era seduta lì; diceva che non le andava di allontanarsi dal posto dove era nata, di allontanarsi dal mare, dal molo, dagli scogli e dai gabbiani.
Il mare la faceva sentire viva e poi non sarebbe sopravvissuta dieci minuti in mezzo alla nebbia delle grandi città.
E poi diceva che non c’era bisogno di andarsene per vedere il mondo, perché tanto il mondo bastava aspettarlo che sarebbe passato di lì.
E in effetti di lì passava un sacco di gente.
Soprattutto d’estate, come è normale, con tutti i turisti che scappavano dall’afa per buttarsi nel loro mare fresco. Lei quelli che tornavano ogni anno li conosceva tutti per nome.
Perché a Farfa piaceva guardare dentro agli occhi e alle vite della gente. Lei li leggeva come faceva con i suoi libri. E credo che li trovasse tutti ugualmente appassionanti.
D’estate la sua risata usciva dalla porta della bottega attraverso la cortina di perline azzurre. Ed era talmente contagiosa che chi non la conosceva entrava incuriosito nel negozio per poter essere investito e colorato un po’ da quella cascata di luce.
Ma il mondo non smetteva di passare di lì neppure durante le altre stagioni.
D’inverno passavano soprattutto le persone anziane, che venivano qui perché il clima era più mite. A Farfa piaceva far loro tante domande sulla loro storia e sulla loro lunga vita. Chi ha vissuto di più ha una storia più lunga da raccontare, e poi a lei piaceva la luce che si accendeva nei loro occhi quando sentivano che qualcuno era interessato ai loro racconti.
Come se a casa loro non ci fosse nessuno che li ascoltasse mai.
E poi c’erano gli artisti. Quelli che arrivavano quando i turisti se n’erano andati via, apposta per potersi godere il mare, e il sole e i tramonti e i gabbiani e per poter cogliere l’ispirazione dimenticata dai vacanzieri.
Farfa era affascinata dagli artisti. La si vedeva spesso la sera parlare sul molo con qualche pittore o qualche poeta. Credo che con qualcuno abbia scambiato anche più di qualche parola. Perché anche loro erano affascinati da lei; dal girasole in mezzo al campo di papaveri.
Un giorno arrivò in paese uno di questi artisti. Uno che non si era mai visto.
Era un tizio di quelli alti alti secchi secchi, con dei capelli biondi un po’ lunghi che gli cadevano intorno alla faccia come delle spighe bagnate.
Di quelli che quando camminano sembra sempre che abbiano le gambe troppo lunghe per gestirle bene.
Farfa lo incontrò una sera di ottobre. Lui era seduto sulla panchina che c’è in fondo al molo grande e fissava il mare. Lei come al solito faceva la sua passeggiata solitaria.
Arrivata in fondo al molo anche lei si mise a guardare fisso davanti a sé e rimasero così, sconosciuti e vicini per un sacco di tempo.
Il sole sparì dietro all’orizzonte e nessuno dei due riuscì a vedere il leggendario raggio verde.
A pensarci bene fu molto strana come scena, perché Farfa di solito parlava con tutti ed era sempre lei a presentarsi per prima. Ma con il tizio biondo no. Con lui rimase in silenzio per tutto il tempo.
La sera dopo si ritrovarono di nuovo. Guardarono di nuovo il tramonto in silenzio e poi finalmente Farfa si schiarì la voce e disse qualcosa. Però la disse con voce quasi sussurrata. E anche questo fu molto strano.
Dopo mi spiegò che aveva capito subito che a lui piaceva il silenzio. E che era quello il motivo per quelle due serate strane. E che c’erano modi diversi per avvicinare le persone e con gli amanti del silenzio occorreva avvicinarsi senza parlare se si voleva che loro uscissero dal loro guscio.
Andarono avanti parecchi giorni con i loro incontri silenziosi sul molo.
A poco a poco si scoprì che il biondo era straniero, che era uno scrittore di una certa fama e che pareva vivesse in un faro su di una minuscola isola al largo delle coste di Bretagna.
Forse fu per quello che Farfa sentì un’immediata attrazione per lui. Uno scrittore ha gli occhi molto più pieni di storie di qualsiasi altra persona.
E poi c’era il fatto che vivesse in un faro circondato dal mare. A Farfa era apparsa subito come un’idea assolutamente meravigliosa.
La sera prima di ripartire per la sua terra lui e Farfa si salutarono a lungo sul molo. Si tennero per mano e guardarono il tramonto finchè non venne buio.
Anche se quasi nessuno ci fece caso Farfa da allora cambiò impercettibilmente.
I suoi libri arrotolati e la sua risata che si infrangeva fra le perline azzurre davanti alla porta del negozio rimasero sempre gli stessi, così come il suo guardare il sole e le persone negli occhi.
La differenza si vedeva se guardavi i suoi di occhi. Quelli verdi come l’acqua.
Ora quando guardavano il mare non si limitavano ad assorbirne la vita e la luce. Adesso i suoi occhi guardavano lontano.
Per la prima volta nella sua vita Farfa guardava verso posti diversi dal suo paese e forse nel fondo del suo grande cuore sognava di poterli vedere non solo attraverso gli occhi della mente e attraverso le parole scritte sui libri.
Passò un anno di prezzi battuti sul registratore di cassa, di volti conosciuti che tornavano, di volti nuovi che arrivavano, di risate calde e di papaveri rossi.
Poi tornò ottobre. E con lui tornò lo scrittore con i capelli di spighe.
E negli occhi di Farfa si accese una luce ancora più bella della sua solita.
Io lo sapevo quello che sarebbe successo. Sapevo che sarebbe andata via con lui a vivere su quel faro in mezzo al mare di Francia.
Tutto il paese e anche tutti i turisti si affollarono sul molo il giorno che Farfa lasciò casa. Sapevamo tutti che il sole da quel giorno avrebbe brillato un po’ meno per noi. Però eravamo felici perché lei, per mano al suo scrittore dallo sguardo buono, era assolutamente raggiante.
Ci disse che avevano in programma di girare intorno al mondo. E che avrebbe visto tutti quei paesi e quelle cose di cui aveva solo letto. E che ci avrebbe portato un sacco di regali. Era talmente entusiasta che la sua voce si sentiva in tutto il porto.
Ci sarebbe mancata tanto quella voce potente.
Farfa mantenne tutte le sue promesse. Tornava al paese almeno una volta l’anno per salutare tutti e strizzarci in uno dei suoi abbracci. Ogni volta portava regali presi in luoghi lontanissimi e foto bellissime che tutti noi incorniciavamo e appendevamo in casa o nei negozi, orgogliosi di averle ricevute in dono.
Anche lei, convinta dal suo Amorebiondo, cominciò a scrivere libri e la cartolibreria ne mandava sempre a comprare degli scatoloni pieni, perché in paese tutti ne volevano avere una copia da leggere.
Scrisse un libro anche su di noi. Sul paese in cui era nata e cresciuta. C’eravamo tutti in quel libro. C’era ogni gabbiano e ogni scoglio e i vecchi si commuovevano a leggere quelle parole belle scritte da Farfa.
A leggere quelle pagine c’era davvero da essere orgogliosi di essere nati proprio lì.
Nel paese dove volano le farfalle.

AUTORE - SARA

01 giugno 2009

LIBERTA'

Sono davanti alla porta. Devo solo abbassare la maniglia e uscire. La libertà è a portata di mano.

Da quando avevamo traslocato in quel quartiere eravamo tutti più felici: la casa nuova era grande e spaziosa e i vicini, tranquilli, silenziosi e cordiali.
Quello che mi stava più simpatico era il signor Brandol, soprannominato Martin Pescatore perché passava tutto il tempo libero attaccato alla sua canna da pesca al lago Sherman, a circa un’ora di macchina da noi.
Pescava sempre un sacco di pesci e ne regalava a tutti. Un giorno ci aveva portato una borsina di plastica con dentro tre o quattro di quelle che poi mio padre aveva riconosciuto come tinche.
“Oggi è stata un’ottima giornata al lago. Non facevo in tempo a buttare giù l’amo che qualcosa abboccava” aveva sentenziato Brandol, consegnando parte del pescato a mio padre.
“Grazie mille. Sei sempre gentilissimo con me. La prossima settimana ti invitiamo a cena da noi. Tieniti libero, ok?” aveva proposto mio padre di rimando.
A me il pesce non piaceva, ne odiavo l’odore e tutte quelle lische che mi si piantavano nei denti. Quando mia madre mi obbligava a mangiarlo “perché fa bene” lo passavo di nascosto sotto il tavolo a Buck, il nostro Fox Terrier che, invece, mostrava di apprezzarlo parecchio.
Quando quello stesso pomeriggio avevo aperto il frigo per prendermi un succo di frutta, qualcosa all’interno si era mosso. Avevo lanciato un urlo e avevo fatto un balzo all’indietro.
Possibile che quei pesci siano ancora vivi?
Mi ero avvicinata con cautela e avevo allungato la mano per toccarli. Un colpo di coda.
Accidenti! Uno dei pesci stava ancora lottando per non morire. La sua tenacia mi impressionò e, poiché amavo molto gli animali, lo presi e lo misi subito nella vasca da bagno che avevo riempito di acqua.
Dopo qualche minuto di stordimento, la tinca aveva iniziato a nuotare lentamente.
Ero al colmo della felicità. Mia madre non era dello stesso avviso: ”Togli immediatamente quell’essere dalla vasca da bagno, Ruth!”
“Ma mamma è ancora viva!”
“Bé fai come vuoi, ma trovale un’altra sistemazione. E subito!” aveva protestato mia madre.
Così le trovai una nuova dimora: un grosso catino parcheggiato nel capanno degli attrezzi che usavamo per lavare Buck.
Curai e sfamai Polly (così la chiamai) per due mesi. Ormai mi ero affezionata a lei. E anche lei si era abituata a me e alla mia presenza.
Le prime volte quando la prendevo in mano per cambiarle l’acqua si agitava, sbatteva la coda e cercava di divincolarsi. Ma già dopo una settimana, conosceva il mio tocco e si lasciava prendere docilmente.
Nella casa di fianco alla nostra abitavano i signori Cutter, due vecchietti entrambi in pensione. Ma mentre lui si alzava tutte le mattine prestissimo per fare footing, lei rimaneva a letto almeno fino alle undici. Sembravano i due opposti: lui si teneva impegnato tutto il giorno in attività che lo tenevano in movimento, lei era sempre sdraiata in giardino a leggere libri o a prendere il sole.
Anche noi avevano un bel giardino. C’erano tanti fiori e piante.
Buddy, che abitava nella casa di fianco a quella dei Cutter, veniva tutte le settimane a falciare l’erba, curare i fiori e livellare la siepe. Faceva il giardiniere di mestiere e, così diceva sempre papà, era davvero molto bravo e meticoloso. Si occupava anche di sistemare le buche che puntualmente Buck scavava per nascondere i suoi adorati ossi.
Buddy ormai era uno di casa, per cui non mi preoccupai per nulla quando mi propose di salire in casa sua per darmi un regalo.
Avevo nove anni.
Appena varcai la soglia di casa mi tappò la bocca. Mi disse che non dovevo strillare, che non mi voleva fare del male, che voleva solo occuparsi di me.
Poi il buio. Quando mi risvegliai ero in un letto, in una stanza senza finestre e con la luce fioca di una lampadina appesa al soffitto.
Avevo una catena alla caviglia.

Sono a pochi centimetri dal mondo esterno, dalla libertà. E’ passato molto tempo dal giorno in cui sono entrata così ingenuamente in casa di Buddy, ma non saprei dire con precisione quanto. Mesi. Anni, credo.

Le prime volte che Buddy si avvicinava a me cercando di abbracciarmi, io urlavo, piangevo e cercavo di scappare da lui.
Lo pregavo di lasciarmi libera e di farmi tornare dalla mia famiglia.
Lo odiavo, mi aveva rinchiuso in quel tugurio come fossi un animale, un oggetto.
Poi poco alla volta mi ero abituata alla sua presenza, alla sua voce, alle sue mani.
Poco alla volta gli avevo ceduto quella parte di me che prima scalciata, scalpitava.
Ero diventata sua, un suo giocattolo: gli appartenevo.
Diceva che solo lui mi voleva bene e che tutti gli altri, dopo il primo momento di dolore, si erano dimenticati di me. Lui non avrebbe mai potuto abbandonarmi. Lui mi amava.
Dopo le prime volte non mi aveva neanche più picchiata.
Mi portava vestiti nuovi, man mano che quelli vecchi non mi andavano più bene. E cibo. E libri di favole da leggere. Bambole e peluche. E noccioline americane. Io amavo le noccioline americane.
Così, poco alla volta, avevo finito per essere un tutt’uno con lui. Il mio carceriere e allo stesso tempo la mia unica fonte di calore umano.
Quel giorno, Buddy, prima di uscire da casa aveva chiuso male il lucchetto della mia catena. Mi era scivolata via dalla caviglia ed era caduta dal letto facendo un tonfo sordo.
Ero rimasta impietrita, poi ero salita lentamente da quel seminterrato che era ormai la mia sola immagine di vita e a piedi nudi, incredula e spaventata, mi ero trovata nel soggiorno.

Devo solo allungare la mano per aprire la porta ma un cocktail di sentimenti impetuosi e contrastanti mi blocca il respiro. Mi affloscio a terra come un palloncino sgonfio.
Devo solo aprire quella dannata porta e dire al mondo che sono viva, che sono sempre stata qui. Così vicina e così lontana, allo stesso tempo. Ma non ci riesco. Le mani mi tremano, tutto il mio corpo trema.
Mi viene in mente quando avevo riportato Polly al lago Sherman. L’avevo presa in mano e l’avevo rimessa nel suo ambiente naturale. Lei però non si era mossa. Non si allontanava. Allora avevo pestato i piedi dentro l’acqua, con forza. Quel movimento l’aveva convinta a nuotare e andare verso il fondo del lago, dove l’acqua era profonda.
Ma io non ho lo stesso coraggio di Polly. O forse è perché nessuno qui muove l’acqua intorno a me. Tutto in questa casa è immobile. Solo silenzio. Quel silenzio che ormai mi è diventato così familiare.
Scelgo la paura minore.
Ritorno sui miei passi e mi chiudo con forza la catena intorno alla caviglia.
Forse Buddy mi porterà le noccioline, più tardi.

AUTORE - Rossella Penserini